L’Italia non è un paese per mamme. E in questo campo il Veneto si trova solo a metà classifica, con dati migliori sul piano del lavoro ma nettamente peggiori su quello dei servizi, mentre la Lombardia negli ultimi anni ha perso punti e posizioni, in particolare nella cura, pur restando nella top 5. A dirlo è l’“Indice delle mamme” utilizzato da Save the Children per analizzare la situazione del Bel Paese sulla scia del “Mother Index international” utilizzato dall’associazione negli Usa. Scopo dell’indice, realizzato in collaborazione con l’Istat, è misurare la condizione delle madri in tre domini principali: la cura, il lavoro e i servizi, prendendo come “anno base” il 2018, che rappresenta quindi il valore 100. Un punteggio superiore significa una situazione socioeconomica migliore per le donne rispetto alla media. Un’analisi molto utile per comprendere un problema come quello della denatalità, che si aggrava progressivamente e rischia di avere ripercussioni pesanti sull’economia, la società e la tenuta del sistema di welfare.
Il quadro Secondo il rapporto “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2022” diffuso da Save the Children, le donne scelgono di diventare mamme sempre più tardi, con un’età media al momento del parto di 32,4 anni e fanno sempre meno figli, con una media di 1,25 bambini per donna. Un dato, quest’ultimo, particolarmente preoccupante, visto che per garantire la stabilità del sistema lavorativo e pensionistico, oltre che sociale, l’indice di fertilità dovrebbe essere 2,1 figli per donna in età feconda. E i numeri illustrano meglio di qualsiasi parola questo quadro: nel 2021 il numero di nati è sceso sotto quota 400 mila, con solo 399.431 culle riempite, che significa un calo dell’1,3% sul 2020 e addirittura di poco meno del 31% sul 2008. Ad influire sono anche le ripercussioni lavorative. Il 42,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli ha rinunciato a lavorare o al massimo lo fa con contratto part time, che riguarda il 39,2% delle donne con due o più figli minorenni. E nel 2020 oltre 30 mila donne con figli hanno rassegnato le dimissioni, spesso per la difficoltà a coniugare famiglia e lavoro a causa della mancanza di servizi o dell’eccessivo costo degli stessi. Eloquente la percentuale di bambini tra gli 0 a i 2 anni che nell’anno scolastico 2019-2020 hanno frequentato gli asili nido finanziati dai Comuni: il 14,7%.
La classifica L’andamento italiano generale, per quanto riguarda la qualità di vita delle madri, è abbastanza altalenante. Dopo un aumento nel 2019, nel 2020 l’indice era tornato quasi al livello base, mente nel 2021 è salito quasi a 102, segno di un miglioramento della situazione. Le prime posizioni sono occupate storicamente dalle Province di Bolzano e Trento, che nel 2021 avevano rispettivamente un punteggio di 117,3 e 115,4, seguite dall’Emilia Romagna (112), Friuli Venezia Giulia (111,3), Lombardia (109,2), Toscana (108,4), Valle d’Aosta (107,8), Piemonte (107,7), Umbria (107,7) e Veneto, che si colloca in decima posizione con 106,4. In pratica a metà classifica in un quadro che vede invece tutte le regioni del Mezzogiorno e parte del Centro sotto quota 100, con la Campania fanalino di coda a 80,4, sebbene i miglioramenti al Sud siano tangibili. Per il Veneto, dal 2018, si registra un miglioramento nei valori (partiva da 105), ma non in griglia, visto che nel 2020 ha dovuto cedere la nona posizione all’Umbria. Per quanto riguarda la Lombardia, invece, si passa dal terzo posto con 113,3 al quinto con 109,2.
Lavoro La classifica nella quale il Veneto fa registrare i risultati migliori è quella relativa al lavoro, in cui nel 2021 ha superato proprio la Lombardia (115,6) salendo al quinto posto con 116,3, dietro a Bolzano (118,9). Trento (117,7), Emilia Romagna (116,8) e Valle d’Aosta (116,7). Gli indicatori considerati sono il tasso d’occupazione femminile e quello di mancata partecipazione al mercato del lavoro delle donne tra i 25 e i 54 anni. Un campo nel quale le donne partono svantaggiate già dal loro ingresso, a causa del gap tra il loro reddito e quello dei colleghi. Il reddito mensile lordo medio delle donne nell’anno del diploma, infatti, è si 415 euro contro 557, differenza che si amplia solo un anno dopo, con 716 euro contro 921. A 30 anni, poi, gli uomini hanno ancora prospettive di incrementare i guadagni, mentre quelli delle colleghe si bloccano. Questa disparità è uno dei tanti elementi alla base dell’abbandono del mercato del lavoro sa parte della componente femminile: se si deve sacrificare uno stipendio sarà certamente quello più basso, quindi quello della donna. Anche le diverse forme contrattuali rispecchiano questa disparità, persino in un momento di ripresa come quello dell’anno scorso. Nel primo semestre 2021, infatti, solo il 38% delle 267.775 trasformazioni contrattuali a tempo indeterminato aveva in calce una firma femminile. Sul totale dei nuovi contratti, poi, il 38,1% dei poco più di 1,3 milioni riguardanti donne era a tempo determinato, il 17,7% stagionale, il 15,3% somministrato e solo il 14,5% indeterminato. Quelli firmati da uomini, circa 2 milioni, erano invece per il 44,4% a tempo determinato e per il 18% a tempo indeterminato. E se il tasso di donne con figli occupate è del 61%, (con un picco di disoccupate del 62,6% al Sud, mentre al Centro sono il 35,8% e solo il 29,8% al Nord) per i maschi questo numero sale all’88,6%. Dai due figli in su, questo divario aumenta, con un 54,5% di donne lavoratrici contro l’89,1% degli uomini. Segno che, appunto, si tende a mantenere un solo stipendio e ad abbattere le spese delegando tutto il lavoro di cura alle madri. Anche il Covid non ha aiutato le donne: nel 2020 su 42.377 dimissioni di bambini tra gli 0 e i 3 anni convalidate, infatti, il 77,4% erano state presentate da donne e il 71,2% da madri. Il motivo? Difficoltà a conciliare lavoro e cura dei figli, tanto che la recessione dovuta alla pandemia è stata ribattezzata “shecession”. Se non, addirittura, “momcession”. La soluzione? Secondo Antonella Inverno, responsabile politiche per l’infanzia di Save the Children, «servono misure efficaci, organiche e ben mirate che consentano di bilanciare le esigenze di essere madri e quelle dell’accesso e della permanenza nel mondo del lavoro».
Cura La situazione lavorativa si lega ovviamente a doppio filo a quella appunto relativa alla cura. In questo caso l’indice delle mamme ha preso in considerazione – sempre su base regionale - il tasso di fecondità e l’indice di asimmetria nel lavoro famigliare per le coppie con donne tra i 25 e i 64 anni con figli e in cui entrambi i genitori sono occupati, focalizzandosi sulla distribuzione dei carichi di lavoro. E qui, purtroppo, la situazione ha visto un peggioramento generale, sia a livello italiano che regionale. Dopo un lievissimo miglioramento nel 2019, infatti, il dato nazionale è sceso sotto quota 100, attestandosi a 98,9 nel 2020 e a 98,1 nel 2021. Anche in questo caso prima e seconda posizione per Bolzano (114,8), l’unica in costante miglioramento e Trento (106,4), davanti alla Lombardia (104,8) che ha perso il primato dopo un calo di quasi 20 punti dal 2018 (era a 123,4), ma resta comunque sul podio, nel suo piazzamento migliore. Seguono Piemonte (104), Emilia Romagna (103,8) in calo costante, Friuli Venezia Giulia (102,3) e Veneto, in settima posizione con un indice di 101,3. Chiude la classifica la Basilicata a 69,8. I motivi di questa disparità li abbiamo in buona parte già elencati: stipendi più bassi “sacrificabili” a fronte di una carenza di servizi accessibili anche da un punto di vista economico. E anche a livello legislativo, il divario tra congedo di paternità è ancora troppo ridotto, come sottolinea Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children. «Gli Oss dell’Onu dedicano l’obiettivo 5 alla parità di genere e il “traguardo” 5.4 dell’Agenda 2030 è focalizzato proprio sul tema della conciliazione e della condivisione – afferma - Per centrare questo traguardo, occorre incentivare il ruolo degli uomini nel lavoro di cura, anche introducendo un congedo di paternità obbligatorio significativamente più lungo dei dieci giorni previsti dalla legge di bilancio 2022 e dai provvedimenti collegati». Qualcosa, comunque, si sta facendo. «Le riforme in atto, come il Family Act o la legge sulla parità salariale – continua - sono passi avanti, ma occorre completare il quadro con investimenti consistenti: dal sostegno al reddito, alle politiche fiscali, all’offerta di un’infrastruttura di servizi, alla qualità del sistema scolastico, alle misure di conciliazione, tutto influisce sul benessere del nucleo familiare e anche sul tasso di fertilità che sta segnando picchi drammatici ormai in Italia».
Servizi In troppi casi, come si è visto, sono ancora assenti, carenti o troppo cari per le coppie, soprattutto giovani. E se l’indice per l’Italia segna un miglioramento quasi costante, con un dato a 107,2 nel 2021 dopo una lievissima flessione nel 2020, questa classifica è decisamente il tallone d’Achille del Veneto, che partito leggermente sotto quota 100 (99,8 nel 2018) ha sì visto un incremento costante, ma troppo lento, fino al 102,8 attuale, scendendo dalla 13ma alla 15ma posizione, dietro non solo a tutte le regioni del Nord, ma anche a Toscana, Umbria, Marche, Molise, Puglia e Sardegna. E non brilla nemmeno la Lombardia, che mantiene la sua decima posizione con 107,7. Un dato peculiare di questa classifica è infatti una minore differenza tra nord e sud, dove molte regioni hanno migliorato significativamente i servizi. Incrementi non indifferenti, infatti, sono anche quelli dei tre fanalini di coda, Sicilia (99,5), Campania (98,4) e Calabria (96,4), che pur essendo le uniche ancora sotto quota 100 hanno recuperato 10 o più punti dal 2018. Eloquente, in fatto di servizi, il già citato dato relativo alla frequenza degli asili nido o servizi integrativi finanziati dai Comuni, che ha toccato appunto un bambino su sette, con disparità di presa in carico anche notevoli tra una regione e l’altra. Come molto diversa è anche la spesa dei Comuni per bambino 0-2 anni, con una media italiana di 906 euro e un divario che va dai 2.481 euro di Trento ai 149 della Calabria. Nella top 5, dietro a Trento, la Valle d’Aosta (2.396 euro), l’Emilia Romagna (1.932), Bolzano (1.928) e Lazio (1.822), mentre la Lombardia occupa la 12ma posizione con 813 euro e il Veneto non va oltre la 14ma con 606 euro, entrambi inferiori alla media nazionale.