Vittorio Filippi, sociologo familista dell’Università di Padova, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi.
Professore, la denatalità in Italia è inarrestabile. Secondo il presidente dell'Istat Giancarlo Blangiardo nel 2070 saremo 47,7 milioni. La popolazione italiana è già scesa sotto quota 59 milioni a gennaio 2022, registrando una diminuzione di 1,36 milioni rispetto al 2014. Sono davvero un problema per il nostro Paese questi dati?
«Non sono un problema solo per il nostro Paese, ma per tutta l’Europa. Seppure l’Italia presenti una decrescita più accentuata che altrove. In Italia, e in tutta l’Europa del Sud, la denatalità ha dimensioni enormi e ciò ha ripercussioni anche gravi. Il fenomeno tuttavia non è di oggi. L’Italia ha iniziato a decrescere già negli anni Sessanta. E da allora il trend non si è più fermato. A quel tempo il fenomeno era un po’ in sordina. Oggi è un’ipoteca su tutta la sostenibilità del Paese di cui dovrebbero occuparsi tutti, non soltanto i cattolici. Troppo spesso si relega il problema della denatalità a un problema “cattolico”. Non è così, riguarda ognuno di noi».
Restiamo ancora un attimo sul fenomeno in sé. La popolazione italiana decresce, è vero. Tuttavia il nostro Paese è anche attraversato da importanti migrazioni, una risorsa se gestite nel giusto modo, non crede?
«Sulla carta le migrazioni aiutano, certo. Facciamo meno figli, ma in parte questa deficienza è supplita dall’arrivo di nuove persone da fuori. Tuttavia abbiamo a che fare con persone, non con meri numeri, e dunque questa equazione non è così semplice da fare».
Cosa vuole dire?
«Voglio dire che le migrazioni vanno anche integrate nel tessuto sociale e non è scontata questa cosa. Le migrazioni sono una ricchezza, ma implicano anche un cambiamento del tessuto sociale non indifferente. Inoltre i numeri almeno in Italia non sono così importanti. Ci vorrebbe un flusso numericamente più consistente per supplire davvero alla mancanza di nuovi nati. L’Italia, fra l’altro, non è considerato un Paese appetibile da chi viene da fuori: si preferisce passare dall’Italia per migrare altrove. Anche molti nostri giovani preferiscono il Nord Europa. Tutto questo è un problema, direi una emorragia che non ci fa bene».
Ma qual è a conti fatti la ripercussione maggiore della mancanza di nascite in Italia?
«Non è soltanto un problema di mancanza di forza lavoro. Questo problema c’è, pensiamo ai tanti lavori che possiamo chiamare “più umili” e che oggi se non ci fossero persone che arrivano da fuori nessuno farebbe più. Il turismo a Venezia, tanto per fare un esempio, vive grazie a coloro che da fuori trovano lavoro lì. Più in generale, qui voglio arrivare, c’è anche un problema di invecchiamento della popolazione che ha ripercussioni gravi su tutti noi. Siamo un Paese molto longevo. E questo è un bene ma è anche un problema. Avere una popolazione sempre più anziana significa trascinare verso l’alto la spesa sanitaria, assistenziale, pensionistica. E dall’altra parte comporta non avere un bilanciamento dal basso, non avere nuove generazioni che aiutano a pagare questa spesa, che la supportano. Come vede il fenomeno ha conseguenze di grande impatto».
Perché l’Italia vede una denatalità così accentuata, mentre altri Paesi, soprattutto nel Nord Europa, soffrono meno?
«Ci sono tante cause, alcune anzitutto di carattere materiale. A livello sociologico e culturale abbiamo sempre pensato che la famiglia sia un affare privato che ognuno deve gestirsi in autonomia e come vuole. Non si è mai guardato alla famiglia come a un qualcosa da salvaguardare con politiche adeguate, ma sempre come ad una dimensione da considerare nel privato. E quindi vere e proprie politiche natalistiche non ne abbiamo mai messe in campo in modo adeguato. Inoltre c’è stata in Italia una svolta culturale per cui fare figli è divenuta una delle tante possibilità del rapporto di coppia e non la prima scelta di chi si sposa o di chi decide di vivere assieme. L’obbligo morale, o religioso, del mettersi insieme per costruire una famiglia non esiste più. Eravamo un Paese cattolico con alcune conseguenze che ciò comportava, oggi non lo siamo più. Oggi si può fare un matrimonio senza figli o si può vivere una vita stabile di coppia senza cercare figli. È così, e ciò da un punto di vista della natalità ha conseguenze precise».
È possibile arrivare a nuove soluzioni o è ormai troppo tardi?
«Se guardiamo il fenomeno da un punto di vista matematico la situazione è irreversibile. Non abbiamo più tante donne in età fertile. Per ovviare a questo problema ognuna delle donne italiana in età fertile dovrebbe fare tre o quattro figli, impossibile. Si possono però mettere in campo delle cure almeno per evitare il peggio».
La decisione del precedente governo dell’assegno unico per chi ha figli è una di queste?
«Voglio essere chiaro. Quella è stata una buona scelta. Ma parlerei non di una soluzione ma di un ottimo inizio. Ma occorre continuare e occorre fare altro. È già tardi e servono politiche di lungo raggio, che durano nel tempo, strutturate».
Come avviene in Francia?
«La Francia in questo campo è un Paese a cui guardare. Da anni ha deciso per politiche che favoriscano la natalità e non se ne è pentita. Sono politiche sistemiche, affidabili, consistenti, eque e per questo funzionano. Dovremmo guardare a loro e fare come loro. Ma occorre avere la consapevolezza che gli effetti di queste politiche non si misurano subito, ma almeno dopo venti anni. Serve investire sul futuro, uscire dalle logiche elettorali, adottare politiche il cui beneficiario è l’intero sistema Paese ma soltanto dopo un certo numero di anni. Non è mai troppo tardi ma nello stesso tempo dico che è già troppo tardi. Per cui chiederei alla classe politica di aprire gli occhi e di agire. Non domani, ma oggi».